L’albero è spesso considerato simbolo di vita che dal tronco si dirama rigogliosa verso l’alto. Qui vediamo il tronco di un albero reciso: volutamente tagliato da mano umana, ma non ancora morto, le sue radici fuoriescono dal terreno, ancora vive, seppure dolenti. Probabilmente se si “innestasse” un germoglio potrebbe crescere un nuovo giovane virgulto. Invece il tronco è anche grembo e dimora di un demone, Horkos. La scelleratezza e l’incoscienza che sono state di Laio e poi di Edipo, e che hanno portato alla luce i desideri, le passioni e i più reconditi sentimenti umani, hanno generato caos, disamore e dismisura. La figura della Maledizione/Horkos si muove lenta trascinando con sé la terra desolata su cui Eteocle e Polinice si contendono il potere. Se da una parte si è scelto di personificare la maledizione che di padre in figlio si scaglia contro la stirpe cadmea, dall’altra essa stessa si manifesta non come una forza che obnubila le menti e determina le scelte, ma come un monito, quasi un testimone inascoltato. Eteocle e Polinice scelgono la guerra, con pretesti patriottici, a danno della popolazione e, infine, di se stessi. Arida non è la terra, ma l’animo dell’uomo. La guerra è lì, sempre presente e si percepisce. Si avverte, soprattutto, la paura che l a guerra produce. La guerra tuona, sibila, grida, batte colpi, incombe e bussa violenta alle porte. La guerra ha anche le fattezze dei guerrieri e di Polinice, presenti in scena, ma è anche nel racconto e nell’aspetto del coro delle donne, la guerra si manifesta con volto crudele e spietato: rapina, violenza, stupro, morte e pianto. Per il testo di Sette contro Tebe sono state esaminate diverse traduzioni ma il riferimento principale è stata quella di Carlo Diano, per la raffinatezza dell’indagine filologica e la bellezza dello stile: «L’intento era quello di utilizzare un linguaggio il più possibile poetico, il quale ha la capacità di essere alto, quindi straniante, e insieme toccare l’animo umano». Sono state mantenute alcune espressioni che rimandano al campo semantico della navigazione, tenendo conto anche dello scenario, il Teatro Antico di Catania, in cui si svolge la rappresentazione,
sulle acque del fiume Amenano, ess. Il Messaggero: «Rafforza la città. Chiudi ogni falla, prima che l’urto tempestoso di Ares la sorprenda»; Corifea: «Vola e romba, s’impenna e scroscia come inarrestabile acqua che batte sulla roccia»; Eteocle: «Un marinaio corre forse all’impazzata da poppa a prua per trovare scampo alla sua nave in mezzo alla tempesta?». Inoltre, sono state inserite parti di testo attinte dall’Edipo a Colono di Sofocle e dalle Fenicie di Euripide, come il Tiresia per il prologo della Maledizione Horkos; il monologo di Polinice; di Antigone e Ismene e di Giocasta.
Le musiche sono composte dal Maestro Marco Podda.
Sono state composte attraverso un’orchestrazione classica, per grande orchestra.
Anche la linea seguita per i costumi è stata improntata alla classicità, con un simbolismo cromatico e tagli caratteriali. Sono costumi che acutizzano il messaggio della rappresentazione, indumenti che evidenziano lo stato d’animo imperniato dalla furente azione.
Quando abbiamo pensato e deciso di rappresentare Sette contro Tebe, la guerra di questi ultimi anni, non era neanche immaginabile per noi; le parole di Eschilo avevano un suono lontano, un’eco che ricordava dolore e strazio, insensatezza e sgomento. Una Giocasta, madre e moglie, ci sussurra in scena parole che riecheggiano da monito esortandoci alla ponderazione e che oggi presenta con maggior forza un linguaggio con una nuova e dolorosa consistenza, mentre ci accingiamo a mettere in scena la tragedia al Teatro Antico di Catania. Un suono che risveglia la coscienza dal torpore, e ci ricorda che la Storia deve guidarci e che il Teatro è necessario, sempre.
Cinzia Maccagnano